Il
Secondo Conflitto Mondiale, lascia l’Italia straziata nel dolore, nelle infrastrutture e psicologicamente devastata. Le vedove affrontano l’instabile mondo del lavoro e sfamano i figli, orfani di
guerra. 1947: l’America con il piano Marshall, ridava speranza ad un popolo attonito, smarrito. Famiglie disgregate, malattie mal curate e un popolo di ragazzini allo sbando vengono aiutati da
opere religiose di vario ordine. Lòngara: una frazione di Vicenza, ospita tra le sue bellezze, Villa Squarzi, costruita nel 1677 dall’architetto Carlo Borella. Quattro colonne ioniche coadiuvate
da altrettante lesene ne caratterizzano l’architettura interna. Ampi spazi e lunghi corridoi saranno per lungo tempo la casa di tanti piccoli Remì. A distanza di cinquant’anni ci si interroga
sull’efficacia dell’educazione, spesso coercitiva, imposta dagli educatori di allora. Film come “Sleepers” o “Magdalene” raccontano realtà agghiaccianti; collegi come riformatori,
orfanotrofi al confine della realtà.
Ecco le
testimonianze di Antonio Zaltron, Antonio Niego, Adele Zaltron e Paola Castegnero che tra gli anni ’60 e ’70 hanno vissuto un periodo a Villa Squarzi. Paola racconta: “Non avevo ancora 10 anni
quando arrivai a Lòngara nell’ottobre del ’77 con mio fratello Dario di 8 anni. Era di domenica sera. Una fitta nebbia ingrigiva ancor più i miei pensieri. Cenai con pane e caffelatte il cui
sapore non dimenticherò mai. Lo sento ancora, è indescrivibile, un crogiolo di sensazioni che fondono l’amaro dell’abbandono al rancido di una nuova vita piena di incognite. I nostri genitori
erano separati. Mamma lavorava e non poteva badare a noi. Frequentavo la quinta elementare, Dario la terza. Al mattino ci si alzava di buon ora e dopo essersi lavati e rifatto il letto si
scendeva per la preghiera e poi a colazione. Una suora ci accompagnava a scuola fuori dal collegio. Nel pomeriggio svolgevamo i compiti e d’inverno si giocava nel salone. In primavera si usciva
nel parco della villa. Dopo cena allontanavo la tristezza aiutando le monache, assieme ad altre due ospiti, a lavare i piatti. Venerdì pomeriggio era giorno di doccia e per me significava un
trauma. Non c’era contatto visivo tra maschi e femmine ed eravamo disposti in due file controllati dagli educatori. Facevamo la doccia indossando le mutande che cambiavamo in seguito tra due teli
stesi. Si viveva di poco. La domenica dopo la S. Messa spesso a turno venivano a prenderci i genitori. Quando invece rimanevo in collegio provavo un’immensa solitudine, un vuoto innaturale che
non colmavo in alcun modo. Le suore non avevano comprensione ne dolcezza. Erano rigide ed austere. Una suora in particolare aveva il cattivo gusto di ricordarci perché eravamo lì e per me questa
è stata una violenza psicologica notevole. L’unico ricordo dolce del collegio si chiama Suor Pia, compassionevole e dolce. Si sentiva inadatta, era troppo sensibile alle nostre sofferenze e fu
posta in ritiro di preghiera. L’ultimo pensiero prima di dormire era quello di tornare a presto a casa”.
Antonio e
Adele altro sono fratelli ed hanno condiviso il collegio per una decina d’anni. Antonio racconta: “Sono entrato a due anni e non capivo perché ero lì e dopo l’allontanamento forzato
dalla famiglia ho avuto dei problemi nel parlare. Il collegio era come un orfanotrofio. Conservo rari flash back, positivi e negativi. Ampi saloni, camerate immense, lunghi corridoi come gli
ospedali di un tempo. Mangiavamo tutti assieme al refettorio al pian terreno, di fianco all’entrata. C’era la televisione, una rarità! I ricordi che conservo non sono nitidi, forse ho
inconsciamente voluto rimuoverli. L’affetto delle suore era distaccato, dimesso, tutt’altro che materno, direi didattico, da educatrici rigide. Mi è rimasto impresso l’affetto che nutrivo per la
maestra Anna Maria Soardi. La permanenza nel collegio ha scatenato nella mia psiche una chiusura nell’introspettivo per cui seguii le elementari in una classe differenziale poiché avevo bisogno
di attenzioni particolari. Le cagionevoli condizioni di salute dei miei genitori non hanno agevolato i contatti. Sognavo spesso di volare oltre il muro ideale che c’era in me immaginando la
libertà dei verdi prati di casa mia. Si giocava sulla sabbia, con i tappi a corona o con le figurine. Socializzavo poco con i coetanei e sovente mi mettevo in un angolo a scavare nella mia mente
e mi bastava ascoltare il fruscio della testa che si arrotava nel muro per essere tranquillo. Anch’io come molti altri bambini facevo la pipì a letto. Il più bel ricordo è quando la maestra
Soardi mi invitò una domenica a mangiare da lei. Ero emozionatissimo ed imbarazzato, non sapevo stare a tavola e non conoscevo i tortellini. Vissi il mio ultimo giorno a Lòngara con malinconia;
per troppo tempo era stata la mia casa e quando arrivai alla mia ero depresso dagli spazi angusti rispetto al collegio. Il mio ultimo pensiero prima di dormire era quello di poter vincere i miei
tabù, la paura del diavolo, del peccato e l’educazione coercizzata ed imposta che metteva il terrore”.
Adele
racconta: “Avevo 4 anni quando nel ’61 arrivai al collegio e ne uscii solo dopo 6 anni. Non ho bei ricordi, soprattutto per quanto riguarda il magiare giacché sono delicata di mio. Non
sopportavo il brodo, costantemente nel menù e odiavo le verze con l’aceto abbondantemente presente, fino a soffocarne il sapore. Allora mi riempivo la bocca, chiedevo di andare al bagno e appena
possibile sputavo tutto con grande liberazione. Anch’io facevo la pipì a letto era un dramma che ha colpito tutti e che ha avuto termine naturale appena arrivati a casa nostra. Chi bagnava il
letto di notte subiva una plateale punizione, gli veniva messo il lenzuolo inumidito di urina in testa e facendolo sfilare davanti a tutti veniva canzonato e deriso dai compagni. Di notte avevo
paura. Il corridoio infinito che portava ai bagni aveva delle lucette bluastre da incubo. Oggi ho la televisione in camera da letto e di notte quando casualmente mi sveglio e vedo la luce del led
di stand by, non realizzo subito e mi viene la tachicardia. La domenica non andavamo mai a casa e durante l’estate stavamo in collegio. Ricamavamo, facevamo il punto croce per fare passare il
tempo ed uccidere la noia. Il mio ultimo pensiero prima di dormire era quello di tornare a dormire nel mio lettino di casa”.
Antonio Niego
trascorre la sua infanzia tra i cancelli di 4 collegi. L’esperienza più drammatica la vive a San Domenico a Vicenza quando, alla fine degli anni ‘60, un suo compagno finalmente esce dal collegio
ma dopo qualche tempo rientra per strangolare ed uccidere una suora. Niego racconta: “La mia permanenza a Lòngara inizia a 7 anni e termina a 12, dal ’62 al ’66. Ho ricordi nitidi di
quel periodo, in particolare di Suor Delfina, di origine egiziana che era cattivissima, mi picchiava in testa con le nocche delle dita, mi dava pizzicotti e mi girava le orecchie. Ero un
ragazzino vivace ma penso che fossero esagerati i suoi metodi. Al collegio prestavano servizio anche dei civili dai quali ho imparato a fare di giardinaggio e a coltivare la terra. Al mattino la
sveglia era alle sei, si facevano le pulizie e a chi raccoglieva maggior sporco veniva data una caramella in premio. Ne nascondevo una parte in modo da utilizzarne un cospicuo quantitativo in un
solo colpo per avere il riconoscimento promesso. La pipì a letto era un classico così come il dramma della punizione che ne seguiva. Non avevo molti contatti con la famiglia, forse una volta
all’anno. Il fine settimana passava tra compiti e qualche gioco nel parco, la villa era veramente bella. Avevamo le stalle, i maiali, le galline, c’era di tutto e sotto questo aspetto imparavamo
molto. L’unica amicizia che rammento con piacere era una ragazza che incontravo andando a scuola, ci guardavamo con occhiate intense ma nessuno dei due si dichiarava, l’ambiente, la timidezza e
l’insicurezza dell’età ci inibiva. In estate si andava in montagna alla colonia Monte Berico e la stessa era presente anche a Jesolo. In montagna durante le passeggiate raccoglievamo residuati
bellici e dai bossoli del Mannlicher Steyr, estraevamo la polvere da sparo che facevamo brillare sui davanzali delle finestre. Un giorno trovai un colpo di mortaio inesploso che portai in
camerata tra lo sgomento delle suore che, una volta accortesi, chiamarono gli artificieri. A scuola non combinavo granché ma ero bravissimo a disegnare, soprattutto con il bianco e nero
utilizzando sfumature e ombre. Disegnavo anche durante le ore di scuola finché un giorno mi spedirono a casa definitivamente. Mi fu pagato un biglietto ferroviario di cento lire, presi il treno
da Vicenza e arrivai a casa. Così ebbe termine la mia esperienza a Lòngara. Il giorno dopo ero già al lavoro”.
Quattro
storie, narrate a volte con visi distesi e a volte contratti ma con negli occhi ancora la paura di ricevere punizioni, tutte con la tristezza della lontananza da casa, dagli affetti, dalle
proprie cose. I ragazzi di ieri, oggi, nonostante le difficoltà sono riusciti ad avere una vita normale, una famiglia, un lavoro. In ognuno di loro, emerge però in qualche momento della giornata
lo spettro di un’infanzia che indelebilmente ha segnato la loro psiche. Sarebbe importante capire se nell’educazione religiosa di un tempo prevaleva l’efficacia a discapito dell’efficienza,
ottenendo dei risultati immediati, senza alcuna valutazione delle possibili conseguenze, quanto è stato fatto compassionevolmente in nome di Dio e soprattutto se oggi i genitori moderni sarebbero
disposti a portare i loro figli in strutture come il collegio di Lòngara.