A Bolzano, in Via Resia, esiste un muro grigio e sbiadito dal tempo, al di là del quale, sono stati costruiti dei palazzi signorili. La storia racconta che 65 anni fa, quel muro cingeva il lager di Bolzano. Struttura comprensiva all'inizio di sei blocchi e due capannoni. Fabbricato su due ettari per contenere 1500 prigioniere, fu in seguito ampliato per il contenimento di 4000 unità con una decina di baracche per soli uomini. Il campo, gestito dalle SS di Verona e comandato dal tenente Titho e dal maresciallo Haage, erano coadiuvati da una guarnigione di tedeschi, sudtirolesi ed ucraini, questi ultimi, giovanissimi, ricordati per il loro sadismo. Furono internati prigionieri politici, partigiani, ebrei, zingari e alleati. Tra le donne, le militanti antifasciste, le staffette partigiane le mogli, le sorelle e le figlie di perseguitati antifascisti. Infine i bambini, provenienti da famiglie già deportate per motivi razziali. Giunti al campo dovevano spogliarsi. Ricevevano una divisa con zoccoli e a ognuno veniva assegnato un numero di matricola stampato su un triangolo di stoffa. I blocchi erano suddivisi per lettere: al blocco A i lavoratori fissi, elettricisti, muratori e meccanici che erano trattati leggermente meglio. Le baracche D ed E, erano divise dalle altre baracche da un filo spinato ed erano riservate ai “pericolosi”, mentre nel blocco F erano rinchiuse donne e bambini. Esisteva poi un braccio con una cinquantina di celle anguste e umide, dove alloggiava chi doveva essere interrogato o avere un trattamento più duro. Il numero di matricola più alto assegnato in quel campo è stato l’11.115 ma parecchi ebrei non hanno mai ricevuto alcun numero. Tra l’estate del ’44 ed il febbraio del ’45 numerosi furono gli spostamenti di prigionieri verso i campi di Ravensbrück, Flossenbürg, Dachau, Auschwitz, e per Mauthausen, molti di loro non fecero più ritorno. Il lavoro iniziava alle sette e terminava dopo le 16.30, ininterrottamente. Una scodella di rape o di verza a pranzo e a cena con un modico pezzo di pane raffermo. I prigionieri considerati pericolosi venivano utilizzati per lavori pesanti come lo sgombero delle macerie dalle strade cittadine. Tra il personale di supporto alle SS naziste si distinse particolarmente per la sua animalesca e gratuita violenza Michael Seifert detto Misha il quale nacque il 16 marzo 1924 a Landau in Ucraina da genitori tedeschi. Verso la fine del ’43 viene arruolato dalle SS con il grado di Gefreiter o Rottenführer che corrisponde al nostro grado di caporale. Dal dicembre del ’44 all’aprile del ’45 fu addetto alla vigilanza del campo di transito di Bolzano dove ha torturato ed ucciso senza motivo, almeno 18 civili molti dei quali adolescenti. Mike Bongiorno fu tra i prigionieri e testimoni delle atrocità commesse da "Misha". Terminata la Seconda Guerra Mondiale il sanguinario ucraino si nasconde in Canada e nel ’51 si stabilisce a Vancouver. Nel ’61 acquista casa in Commercial Street al civico 5471 e nel ’65 sposa Christine che gli darà un figlio. Nel ’69 fornisce false generalità confermando di essere nato in Estonia ed ottiene un passaporto canadese. Bill Keay, un reporter del Vancouver Sun, lo fotografa il 17 novembre del 2000. Riconosciuto dai molti testimoni, fin dalle prime fasi del processo, Seifert viene condannato all’ergastolo nel novembre del 2000 dal tribunale militare di Verona per la strage di migliaia e migliaia di deportati nei campi di Fossoli e Bolzano. La condanna è stata confermata in appello e resa definitiva in Cassazione nel 2002. Nel febbraio del 2008 finalmente viene estradato il “Boia di Bolzano” e condotto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere.
Il 18 marzo del 1916, in Via San Tomà a Bagnolo di Lonigo nasce Maria Sterchele. Oggi vive ancora nella sua casa natale assieme alla sorella. E’ una signora splendida dalla memoria lucidissima e pronta, visiva e affilatissima, ricca di particolari ed emozionanti racconti. I suoi occhi profondi parlano da soli e quando ti guarda mentre narra vicende quasi incomprensibili per i nostri giorni, riesce a coinvolgere l’interlocutore fino a proiettare nella sua mente un filmato in bianco nero dei peggiori momenti della resistenza. La sua storia comincia così: “Alla fine del ’43 venni fermata da un certo Castiglion il quale era a conoscenza del nostro schieramento antifascista. Disse che ci sarebbe stato qualcosa da fare. Intuendo, risposi che se non ci fosse stato pericolo per i miei famigliari sarei stata a disposizione. Iniziammo così a fare le prime riunioni a casa di Gianni Gechele; ricordo che vi partecipava anche il Segretario Generale della Camera del Lavoro di Lonigo, Marchetto (che fu anche sindaco di Lonigo nell’immediato dopo guerra nominato dal C.L.N.), il cui nome da partigiano era”Leo” e che dovette scappare all’estero a causa del fascismo. Combatté in Spagna contro il Generalissimo Franco. In seguito arrestato in Francia e mandato al confino alle Isole Tremiti. Dopo l’8 settembre del 1945 fece ritorno a casa e ritrovò i suoi compagni. L’avvocato Ettore Gallo ebbe per primo l’idea di organizzare i comitati d’azione. La sera del 14 ottobre del 1943, presenti il capitano Mario Fiandini, il capitano Giuseppe Pellegrini, Nicolino Polcino e Luciano Bettini, si definirono le linee organizzative. Ero la staffetta del Capitano Fiandini, nome di battaglia “Grigio”, il mio era “Maruska” e condividevo questo incarico con Rina Martello il cui nome di battaglia era “Stella”. Portavamo messaggi riservati a Noventa Vicentina, Montagnana, dove serviva, con una bicicletta scassata e copertoni improbabili. Fui tradita da un certo Bari di Santo Stefano di Zimella, anche lui un collaboratore, che una sera un po’ offuscato dal vino raccontò tutto. Alle 6 del mattino del 6 febbraio del ’45 vennero le Brigate Nere a prelevarmi in casa. Salirono per le scale senza attendere che mi vestissi e mentre tentavo di allacciarmi gli scarponi, un fascista si avvicinò al paracenere del camino dov’era accoccolato il gatto al quale chiese beffardo: ”Ti chiami Leo bel gattino?”. In quel momento capii tutto. Trasferita alla caserma dei carabinieri di Lonigo trovai quel Bari che mi invitò a vuotare il sacco, mi chiesero di Leo ma io non tradii la causa nonostante le sevizie e le percosse subite. Trasferita a Verona trascorsi un mese presso le Brigate Nere, con me c’erano Gianni Gechele, Pietro Cunico, un tale Marchesini direttore della Banca Popolare Agricola di Lonigo ed una certa Benedetti da Sarego che in seguito impazzì. Passammo qualche tempo anche presso una caserma di tedeschi di stanza a Verona. Una sera fummo caricati su un camion, una ventina di persone, con “Pippo” che controllava dal cielo e fummo trasferiti al lager di Bolzano. Eravamo oltre seimila anime. Il mio sguardo incrociò al di là di una rete metallica il professor Dante Perotti da Verona il quale mi salutò calorosamente, era un compagno arrestato più volte a seguito del suo modo di manifestare con l’insegnamento, dissenso per i nazisti. Mi sentii afferrare per i capelli dalla mano di una nazista che mi trascinò via. Era una vita oltre il limite di ogni immaginazione, non sopportavo di dover fare i miei bisogni davanti a tutti nella baracca dove dormivamo e poi il mangiare era nauseante, si chiudevano le narici per trangugiare. Forse era verdura secca ammorbidita nell’acqua bollente senza sale e di colore scuro. So che hanno da poco estradato quel “Misha”, sapevo che era nel lager e delle sue malefatte ma non ho mai avuto a che fare con lui, ero una stiratrice e non ho mai dato fastidio a nessuno. Finalmente dopo circa due mesi di prigionia, il primo maggio del ’45 fummo liberati dagli alleati. Feci tutta la strada che da Bolzano porta a Lonigo a piedi assieme ad una combriccola di malcapitati come me dormendo all’addiaccio. Sono arrivata a Lonigo l’otto maggio del 1945. Oggi è difficile per la gioventù moderna immaginare la povertà, la miseria e la paura che abbiamo vissuto”.