23 novembre San Giovanni e Paolo.
Sono le sei del mattino quando gli uccellini della mia sveglia iniziano a pigolare con estrema discrezione. Cerco il cellulare, sotto il cuscino di fianco al mio,
quello vuoto, mentre ancora la mia stanza sa di sogni. Inizio a recitare le mie preghiere a mente, come ogni mattina da tanto tempo ormai. Le recito per tutti, senza distinzione ma soprattutto
per chi soffre. Mai per me. Oggi è un venerdì insolito. Debbo mettere il vestito grigio che ho preparato ieri sera sul servo muto con la camicia bianca, ed una cravatta intonata. Mi siedo sul
letto, mentre ancora intorpidito dal sonno cerco nel buio della mia mente che ridisegna nella fantasia la geometria della camera, l’interruttore dell’abat-jour. L’accendo. Il cambio immediato
d’illuminazione restringe in un baleno le mie pupille e strizzo gli occhi. Mi alzo dal letto con fare indeciso, goffo e barcollante, attaccandomi al comò e allo stipite della porta fino a
raggiungere il bagno. Svolgo le mie funzioni rituali mattutine. Lo stomaco mi tormenta, ho la nausea e una tosse nervosa. Quei colpetti di tosse stizzosi e continui che ti innescano uno sforzo di
vomito, presto smorzato al limite delle labbra. Le sensazioni che provo sono quelle di un immediato intervento chirurgico che se va bene è tutto a posto ma diversamente dovrei rifare tutte le
analisi e ricominciare quasi da zero. Mi guardo allo specchio, dopo avere lavato un viso che fatico a riconoscere.
Lo vedo invecchiato molto in fretta. È un logorio evidentemente non legato ad una normale e progressiva senescenza; è come segnato da una lunga malattia che ha provocato continua sofferenza. Ora che lo guardo meglio intravedo come un celato sorriso. Ma non lo è. A quest’ora del mattino c’è davvero poco da ridere. Forse è più una contrattura della notte, di dolore. Torno in camera da letto e indosso il gessato. Camicia e cravatta. Sono accettabile. Saluto Lei che ha scelto me.
Lei, così piccolina che ha visto in me il suo scoglio di salvezza, la sua protezione. La sua casa, il suo rifugio, la sua garanzia. Il suo riferimento stabile. Mi abbraccia. “In bocca al lupo, papà”.
Esco di casa e intanto si sono fatte le sei e quaranta. Scendo le scale che portano al garage, mentre penso alla legge di Murphy, nella fattispecie alla quella che dice: “Se qualcosa può andar male, andrà male”.
Il mio pensiero corre alla macchina: partirà? Proprio stamattina che mi serve assolutamente. Beh, anche le altre mattine mi serve ma stamattina più delle altre mattine. Insomma, non posso mancare. Parto alla volta di Vicenza. La temperatura si aggira attorno ai quattro gradi. Ancora la luce solare non ha riconquistato questa parte del pianeta ed una leggera nebbiolina a banchi ne ostacola l’impresa.
Nel tragitto ascolto la radio, molto bassa ma la sento. Si alterna ai miei pensieri, alle preghiere che riprendo a recitare, per accorgermi poco dopo di averne perso il filo e di essere nel bel mezzo di un altro pensiero. Ricomincio la recita, deciso a non distrarmi ma sto immaginando di avere già terminato tutto.
Il mio appuntamento è per le nove e un quarto. La nausea non molla e lo stomaco ogni tanto fa sentire la sua presenza. Tra poco mi fermerò da Flavio per fare colazione, forse mi farà bene. Mancano quindici minuti alle otto quando riparto dopo una colazione a base di brioche alla marmellata ed il cappuccino con cacao. Decido di parcheggiare a Borgo Berga nell’interrato. Prendo il biglietto e l’asta si alza senza esitare.
Scendo lento in queste viscere urbane al secondo piano interrato. Trovo posto proprio in prossimità dell’uscita e ne approfitto, di solito mi perdo in questi locali, non ritrovo più la macchina e poi sprofondo in un panico totale, come sabbie mobili.
Controllo come ho parcheggiato e sono perfettamente nei miei spazi delimitati. Con il muso a pochi centimetri dalla colonna portante in modo che non ci passi nessuno. Prendo la mia valigetta, chiudo la macchina mentre mi allontano verso le scale che portano tra i vivi. L’orologio segna le sette e cinquantacinque.
Manca ancora tempo quindi prendo un caffè. Entro nel supermercato che ha aperto da qualche minuto. Passo in rassegna tutti i prodotti proprio come una massaia, confronto i prezzi e nel reparto bimbi i pannolini mi fanno tornare indietro di più di vent’anni. Sono così attento a questi prodotti che sembro interessato. Pasta, vino, accessori da cucina, detersivi volti e immagini di un tempo passato mai felice, ma di bimbe d’oro che crescevano.
Poi liti, violenze subite, lacrime, bimbe in pigiama rifugiate in macchina col papà a qualunque ora della notte in giro per il paese, per evitare violenze fisiche e psicologiche. Oggetti volavano seguiti da urla disumane e bimbe trascinate per casa per i capelli. Sputi, offese e sberle per tutti. Carabinieri chiamati per disperazione. Una volta, due volte, tre volte e poi basta perché avrebbero avvisato l’assistenza sociale. Soli nella tempesta. In una barchetta sbattuta a dritta e a manca dai ricatti morali. Dall’enorme debolezza di un profondo amore per le mie creature.
Sono le otto e quarantacinque. Esco dal supermercato, finalmente. Di fronte a me un palazzo enorme e alcune persone in fila di fronte all’entrata. Un cartello riporta che l’apertura è alle otto e quarantacinque. Prendo il mio posto e mi guardo attorno. Ma cosa ci faccio io qui, di solito stavo dalla parte dei buoni.
Oggi sono qui per una sentenza. La mia. Dietro di me una ragazza bellissima, con pantaloni attillati dentro a stivaletti marrone. Giacca a vento di piumino. Mi
guarda, la guardo. Un attimo di incrocio e poi ognuno per sé. Davanti a me un ragazzotto alto con un berretto di lana colorata, una specie di felpa, jeans, scarpe tennis ed una cartellina stretta
sottobraccio. Ondeggia prima su un piede poi sull’altro. Ha freddo il tipo. Una Guardia Particolare Giurata esce dallo stabile per fumare una sigaretta. Fa’ il ganzo. Non ha l’aria intelligente.
Forse si sente un dio, con la sua pistola nel cinturone in bella mostra, gironzola avanti e indietro. Conosce tutti gli avvocati in transito e li invita ad entrare per la porta riservata loro.
“Prego avvocato, entri pure, di qua”!
È il nostro turno, ci fanno entrare. Mi perquisiranno da capo a piedi. Il metal-detector non funziona. Le GPG ci impiegano un tempo improbabile a fare funzionare il
sistema. Ci vorrebbe gente più preparata. Funziona. Ripongo tutti gli oggetti in una cesta in plastica che passa in un tunnel ai raggi x, ed io all’interno di una porta che mi analizza. Non
suona. Tutto a posto. In fondo alla sala, vedo una donna bellissima che mi aspetta. Mi avvicino e mi conforta, mi aggiorna. Saliamo le scale e ci troviamo in un corridoio buio e angusto, molta
gente raccolta in gruppetti a capannello. C’è evidente tensione e insopportabile attesa. Entriamo in un ufficio. Seduta ad una scrivania di legno massello, la Giudice. Giovane, molto bella.
Noi seduti di fronte a lei, siamo in cinque, lei compresa. Ci sono attimi di silenzio finché la Giudice termina un verbale. Mi guardo attorno e alla mia destra vedo appesa al muro una
gigantografia dei Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quella foto dove loro sono vicini a bisbigliarsi qualcosa, condivisa in una complicità rara. Mi sento a casa con loro presenti. Nel
silenzio d’attesa riprendo le mie preghiere e prego per Giovanni e Paolo e mi accorgo di non averlo mai fatto prima. La giovane Giudice ci chiede se vi siano le condizioni per una
riconciliazione: no. Ci chiede se le condizioni poste siano accettate. Silenzio. Chiede a tutti di uscire e mi trattiene nell’ufficio. Mi chiede le generalità, dove abito, i miei redditi, le mie
spese. Grazie può andare, faccia entrare la controparte. Entra la controparte mentre io ho la stessa nausea di prima con conati di vomito che trattengo con esperienza. Vedo una pelliccetta
leopardata di quelle che si vedono in certi viali. Provo un profondo schifo ed immensa soddisfazione per essere arrivato in fondo ad un incubo, soprattutto per le mie ragazze. Rientriamo tutti
dopo qualche minuto. La Giudice deve avere assistito recentemente ad una scena di piagnucolamento. Nella stanza si sente qualcuno che ha il naso gonfio di schifezza. Firmo il documento sottoposto
dalla Giudice. Sono un uomo libero.