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Sulla questione Tibet e Nepal

28 marzo 2008

Tra il 14 e il 15 marzo, a Lhasa e in alcune città cinesi circostanti la regione tibetana, alcune centinaia di monaci buddisti hanno inscenato la maggiore manifestazione contro l’occupazione cinese del Tibet dal 1989. Dalle notizie a noi pervenute, la risposta della polizia cinese è apparsa molto violenta e se fonti ufficiali del governo di Pechino hanno parlato di circa 30 vittime tra i manifestanti, il numero effettivo lamentato dai rappresentanti dei monaci parlano di almeno un centinaio. Siamo di fronte a un grave fatto di sangue e repressione dei diritti umani ad opera del governo di Pechino. Quanto avvenuto appare tanto più grave proprio perché verificatosi a pochi mesi dalle Olimpiadi cinesi, un evento che avrebbe dovuto rilanciare l’immagine mondiale dell’ex celeste impero e mostrare al mondo i progressi compiuti dall’ultimo regime comunista al mondo in tutti gli ambiti a partire dai diritti di libertà di pensiero e di espressione. Non solo, la sanguinosa repressione segue di pochi giorni la pubblicazione del rapporto 2007 sui diritti umani del dipartimento di Stato americano in cui risulta che la Cina non è più nella top ten dei Paesi che non rispettano i diritti umani. La Cina invase il territorio indipendente del Tibet nel 1950 e da allora ha tentato di cinesizzare il territorio acquisito con ampie migrazioni di popolazione cinese; l’obiettivo appare difficile poiché i tibetani, affini ai birmani, non parlano cinese e, sebbene il loro governo legittimo, il cui capo è il Dalai Lama, sia in esilio, non hanno mai ceduto al processo di assimilazione forzata delle autorità di Pechino. Periodicamente, vi sono state proteste contro il governo cinese e quella avvenuta nei giorni scorsi, probabilmente ancora in corso, è una delle più rilevanti. Malgrado le notizie sulla repressione appaiano di ora in ora più gravi, le reazioni della comunità internazionale sono state molto contenute. Forse si dovrà attendere qualche giorno per assistere a prese di posizione più dure verso Pechino, ma il panorama delle risposte emerse dalle cancellerie internazionali non è incoraggiante. Le Olimpiadi sono a portata di mano e il modo in cui la comunità internazionale ha reagito alla strage in Tibet appare venata da una certa ipocrisia, frutto di un coacervo di interessi che i suoi attori hanno intessuto con Pechino. Primi fra tutti gli Stati Uniti, il cui debito pubblico è in gran parte in mano a investitori cinesi e che quindi avrebbero tutto da perdere da una presa di posizione di eccessiva condanna della repressione. Il segretario di Stato Condoleezza Rice si è limitata a chiedere che fra le parti in contrasto prevalga il dialogo. Anche i media statunitensi hanno mantenuto un basso profilo nella diffusione delle informazioni. Ad esempio, su due dei maggiori quotidiani (New York Times e Washington Post) non sono apparsi eclatanti editoriali di condanna di Pechino. Nella scaletta delle principali notizie dell’edizione on-line del Post non ci sono articoli di commento, anzi il 17 marzo l’unico pezzo in evidenza in cui appariva il nome di Pechino era uno in cui si commentava la scarsa qualità dell’aria che gli atleti avrebbero respirato in occasione dei giochi olimpici. Anche la chiesa cattolica ha mantenuto un basso profilo. Il pontefice Benedetto XVI, nel corso dell’Angelus della domenica delle Palme, non ha speso una parola per commentare le notizie dal Tibet. Per rispondere a chi criticava il suo silenzio, le autorità vaticane hanno sostenuto che il Papa, non avendo un nunzio apostolico in loco, non disponeva di notizie utili a permettergli di esprimere una presa di posizione ragionata. La replica vaticana appare plausibile, ma visti i recenti contrasti tra le gerarchie cattoliche cinesi e le autorità di Pechino, decise a controllare le nomine dei vescovi, il silenzio del Papa sembra più una scelta di convenienza, dettata dall’intenzione di non urtare un governo in grado di esercitare indebite pressioni sulla Chiesa cinese. A parziale rettifica del silenzio dell’Angelus e approfittando dell’udienza del mercoledì, il Papa ha espresso tristezza e dolore per quanto avvenuto in Tibet. Se quindi le reazioni di molti soggetti internazionali sono apparse dimesse, così non è avvenuto per la corrente di pensiero dei neocon, responsabili nel bene e nel male di molte recenti scelte di politica estera statunitense: dall’invasione dell’Iraq alla pretesa democratizzazione dell’intero Medio Oriente. In una intervista rilasciata al Corriere della Sera, Richard Perle (un passato di responsabilità di governo sia con Ronald Reagan sia con George W. Bush e uno dei più importanti esponenti neocon al pari di Paul Wolfowitz, William Kristol o i fratelli Kagan) ha subito preso posizione contro la repressione dei monaci buddisti e senza mezzi termini ha sostenuto che per tutelare i diritti umani il governo di Washington avrebbe dovuto boicottare i giochi olimpici cinesi. All’appello di Perle si è aggiunto anche quello di un altro esponente neocon, John Bolton, l’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite. Una posizione così netta non deve sorprendere, poiché i neocon, sin dalle loro origini (negli anni 30 del secolo scorso) di trozkisti contrari alla dittatura di Stalin, hanno fatto della difesa dei valori di libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani un cavallo di battaglia non negoziabile. In una comunità internazionale interessata a mantenere un basso profilo nella crisi tibetana, la scelta di campo di Perle e Bolton appare come un colpo di coda idealista di una delle più influenti correnti di pensiero statunitensi degli ultimi decenni, naufragata nelle secche delle sabbie irachene. Il Dalai Lama ha detto di essere pronto alle dimissioni se la situazione in Tibet degenera e diventa incontrollabile. La dichiarazione è arrivata  durante un incontro con la stampa a Dharamsala, in India, sede del parlamento tibetano in esilio.  Il leader spirituale dei tibetani, accusato dalla Cina di essere dietro alle manifestazioni di Lhasa, ha detto di avere come "unica opzione le dimissioni se le cose vanno fuori controllo". 
Altri 19 manifestanti tibetani sarebbero stati uccisi oggi dalle forze di sicurezza cinesi in un'altra provincia della Repubblica Popolare, quella centro-settentrionale del Gansu: lo ha denunciato il governo tibetano in esilio dal suo quartier generale di Dharamsala, nel nord dell'India. Sempre secondo il governo esiliato, il totale dei morti "accertati" in una settimana di disordini e scontri sarebbe dunque salito ad almeno 99 unità.

Tv cinese: 100 manifestanti si sono consegnati

Intanto la tv cinese riferisce che cento persone, che hanno partecipato agli incidenti di venerdì scorso a Lhasa, si sono consegnate. Un funzionario intervistato dalla televisione ha sostenuto che si tratta di persone che "hanno partecipato, e in qualche caso sono state direttamente coinvolte in pestaggi, distruzioni e saccheggi". Alcuni di loro hanno "restituito i soldi che avevano rubato", ha aggiunto il funzionario. Le autorità cinesi avevano posto un ultimatum alla mezzanotte di lunedì 17 marzo: chi aveva partecipato agli scontri avrebbe dovuto consegnarsi in cambio della clemenza.
Nessuna indipendenza all'orizzonte

L'indipendenza del Tibet è "fuori questione": lo ha puntualizzato il Dalai Lama, replicando alle accuse mossegli al riguardo dalla Cina, nel corso di una conferenza stampa a Dharamsala, cittadina nello Stato settentrionale indiano dell'Hichamal Pradesh dove vive in esilo dal 1959.
Wen Jiabao si scaglia contro la "cricca del Dalai Lama" 

Il primo ministro cinese Wen Jiabao si scaglia contro quella che ha definito come  la "cricca del Dalai Lama" di aver "premeditato e organizzato" le violenze avvenute nei giorni scorsi a Lhasa, capitale del Tibet. La Cina ha sostiene che i morti sono 13 mentre secondo il governo tibetano in esilio sono almeno cento. Wen ha sottolineato che i rivoltosi hanno compiuto "saccheggi e incendi" e che hanno ucciso "in modo estremamente crudele" dei "cittadini innocenti". La versione della Cina, che non coincide con quella di molti testimoni, e' che le forze di sicurezza non hanno fatto uso di armi da fuoco e che hanno esercito la "moderazione" nella repressione dei moti. Il premier ha anche sostenuto che i disordini sono diretti a "sabotare le Olimpiadi", che "da molte generazioni sono il sogno del popolo cinese". "Dobbiamo portare avanti lo spirito olimpico e non politicizzare le Olimpiadi", ha aggiunto.  In una conferenza stampa prolungatasi per due ore e mezzo nella Sala dell'Assemblea del Popolo, Wen ha detto di avere "le prove" della responsabilita' del Dalai Lama, il leader tibetano e premio Nobel per la pace che vive in esilio in India e che nei giorni scorsi ha accusato Pechino di compiere un "genocidio culturale" in Tibet. Si tratta, ha sostenuto Wen, di una "menzogna". Wen ha anche ammesso, per la prima volta, che la rivolta tibetana si e' estesa a molte zone del Paese. Secondo Wen queste circostanze dimostrano che il Dalai Lama "non e' sincero" quando afferma di volere per il Tibet l'autonomia e non l'indipendenza" ma ha lasciato uno spiraglio aperto alle trattative, se il premio Nobel "accettera' che il Tibet e Taiwan sono parte integrale della Cina". A Taiwan, dove sabato prossimo si svolgeranno le elezioni presidenziali e un referendum sull'adesione all'Onu inviso a Pechino, Wen ha offerto la ripresa dei colloqui sull'unificazione, probabilmente nella speranza che vengano confermati i sondaggi che danno vincente Ma Ying-jeou, il candidato piu' disposto a un compromesso.

Wen Jiabao ha negato che sia in corso una stretta contro  i dissidenti

Wen Jiabao ha poi negato che sia in corso una "stretta" contro i dissidenti in vista delle Olimpiadi. E' una cosa, ha detto, "che non esiste". Rispondendo a una domanda sulla sorte dell' attivista democratico Hu Jia, il cui processo comincia oggi, ha affermato che verrà trattato "in accordo con la legge".  Hu, in prigione da tre mesi, e' accusato di "istigazione a sovvertire i poteri dello Stato" e rischia una condanna fino a cinque anni di prigione. 

India. Manifestazione nel nord, chiesto intervento Onu

Oltre  duemila  tibetani provenienti da tutte le province dell'India del Nord si
sono riuniti a Siliguri in una delle manifestazioni piu' affollate da anni, chiedendo alle Nazioni Unite un'inchiesta sulla repressione cinese in Tibet. Guidati da centinaia di monaci in tunica marrone, alcuni dei quali giovanissimi, i manifestanti hanno innalzato bandiere tibetane e marciando per le vie di Siliguri hanno gridato slogan come "Vogliamo giustizia", "Vogliamo la libertà ". Dawa Gyalpo, che dirige una libreria di cultura tibetana nel villaggio indiano di Salugara ed e' stato uno degli organizzatori del raduno, ha accusato le Nazioni Unite di "osservare cio' che succede in Tibet, senza fare nulla", mentre i tibetani dell'India chiedono che "l'Onu avvii un'inchiesta" sui fatti di Lhasa. La manifestazione, cui hanno partecipato anche molte donne in abiti tradizionali tibetani, si e' svolta presso il monastero di Kala Chakra, alla periferia di Siliguri, e ha riunito tutti gli esuli tibetani provenienti dagli stati indiani dell'Arunchal Pradesh, Meghalaya, Nagaland e West Bengala.

D'Alema alla Cina: "Cessi la repressione in Tibet"

"Ci sarà un incontro alla Farnesina con l'ambasciatore cinese perché vogliamo esprimergli la preoccupazione che abbiamo e la richiesta che cessi la repressione, e che possano andare in Tibet osservatori internazionali", lo ha dichiarato il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema. Obiettivo: spingere la Cina ad aprire un dialogo con il Tibet. "Ricordo che il Dalai Lama - ha proseguito D'Alema - non chiede affatto l'indipendenza del Tibet, ma il rispetto dei diritti nazionali del popolo tibetano. Sono le nostre posizioni e saranno espresse all'ambasciatore della Repubblica Popolare cinese dal sottosegretario Vernetti.



TIBET: GUERRA CIFRE SU REPRESSIONE SICHUAN, MORTI SAREBBERO 15

(AGI/EFE/REUTERS)

 

New Delhi, 21 mar. - E' guerra di cifre tra governo cinese e diaspora tibetana sulle vittime della repressione nella provincia centrale del Sichuan, confinante con il Tibet e nella quale e' insediata una comunita' di espatriati, dopo che per la prima volta le autorita' della Repubblica Popolare ieri avevano ammesso il ricorso alle armi da fuoco contro i dimostranti da parte delle forze di sicurezza. Queste ultime, secondo la versione di Pechino, avrebbero sparato unicamente "per legittima difesa", limitandosi a ferire quattro persone; il bilancio delle vittime dall'inizio della crisi resterebbe dunque fermo a "tredici civili innocenti", per di piu' uccisi dagli insorti, liquidati come "facinorosi". Il governo tibetano in esilio sostiene invece che i morti ammontino come minimo a 99, di cui ottanta nella capitale Lhasa e diciannove in una diversa provincia, quella settentrionale del Gansu, anch'essa abitata da numerosi tibetani; per il Parlamento esiliato, invece, si tratterebbe di diverse "centinaia". Al computo dovrebbero comunque aggiungersene ulteriori quindici, tutti uccisi nei tumulti scoppiati domenica scorsa ad Aba, appunto nel Sichuan: lo hanno dichiarato all'emittente 'Radio Free Asia' fonti anonime vicine allo stesso governo tibetano esiliato. Testimoni oculari contattati fortunosamente dai mass media in Occidente hanno parlato a loro volta di "parecchi morti, forse dieci o piu'". I gruppi umanitari filo-tibetani attivi all'estero dal canto proprio hanno denunciato l'uccisione di un minimo di otto dimostranti, dei cadaveri dei quali hanno mostrato le fotografie ma il cui numero potrebbe peraltro attestarsi in realta' addirittura sui trenta. Tutti concordi comunque nel respingere la versione dei fatti fornita dalla Cina. Stando ancora a 'Radio Free Asia', proteste sarebbero tuttora in corso nella prefettura di Huangnan, sempre nel Sichuan; vi prenderebbero parte non meno di duemila tra monaci buddhisti, promotori della rivolta, e semplici laici. Decine le persone arrestate in tutta la provincia, che a detta dei gruppi umanitari rischiano una lunga detenzione senza processo se non addirittura la tortura; in tutto il Paese il totale degli arrestati supererebbe ormai il migliaio di unita'. E poco si sa dei tumulti in una terza provincia abitata in massa da tibetani, quella occidentale del Qinghai, dove analogamente si e' scatenata una feroce repressione. "A questo punto, qualsiasi dichiarazione diffonda il governo cinese non ha piu', virtualmente, alcuna credibilita'", ha commentato Lhadon Tethong dell'associazione 'Students for a Free Tibet'. "Abbiamo visto le foto dei morti, abbiamo amici che hanno perso i loro cari. Respingiamo categoricamente qualunque informazione di provenienza cinese", ha tagliato corto la signora Tethong. A sua volta Kate Saunders, della Campagna Internazionale per il Tibet, ha definito per l'appunto non credibili le pretese di Pechino, secondo cui non vi sarebbero stati morti, e non si sarebbe sparato nemmeno un colpo a Lhasa. "I tibetani si sono assunti rischi tremendi per continuare a permetterci di sapere che cosa sta accadendo la'", ha proseguito. "Ci hanno fornito prove schiaccianti del fatto che vi sono stati morti.
 Non penso", ha concluso l'attivista umanitaria, "che ormai il mondo creda alla versione dei cinesi". (AGI)

 

 

 

 

asianews 

 

Sono state pubblicate le foto di cittadini nepalesi uccisi, e della repressione della rivolta da parte delle forze governative, le immagini ha contenuto violento, si sconsiglia la visione a minori e a persone facilmente suggestionabili.