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 Dicono che la morte sciolga

ogni cosa, tranne 

i pensieri che rimarranno in eterno, tramandati, raccontati, scritti,

ma restano.

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Robert Lee Ordway

Febbraio 2011

Un Berretto Verde dei Corpi Speciali tra noi

La mattina dell’otto marzo del 1965 ha inizio una delle più grandi tragedie della storia d’America. Circa tremilacinquecento Marines erano pronti, nel Mar Cinese Meridionale, a sbarcare sulla spiaggia di Da Nang in Vietnam. Una cittadina destinata a diventare la più grande base americana in Indocina. Uomini convinti di essere stati inviati a difendere ed esportare la democrazia. Il tre dicembre del 1969 raggiungerà questi soldati Robert Lee Ordway, nato in Pennsylvania classe 1952. A soli diciassette anni viene arruolato nei Corpi Speciali dei Berretti Verdi americani con l’incarico di medico di campo. 

Oggi Bob, vive a Monticello di Fara. E’ da diverso tempo che pensavo di intervistarlo anche se all’ultimo ho sempre rinunciato per il timore di disturbarlo. Decido finalmente di raggiungerlo a casa sua con mille perplessità. Mi riceve nel suo salotto, la casa è in penombra con le persiane quasi tutte abbassate. E’ in tuta da ginnastica e di primo acchito noto la sua giustificata diffidenza. Dopo essermi presentato ed aver manifestato le mie intenzioni l’imbarazzo si dipana. Non regala sorrisi, il suo volto è serio ed i suoi occhi attentissimi, parla bene l’italiano. Mentre Bob si accende una sigaretta, seduto sulla poltrona con il suo cagnolino in braccio, inizio a fare le mie domande.

Raccontami un episodio cruento che ha segnato la tua persona del conflitto in Vietnam: “Mi ricordo che il sette novembre del 1971 dopo un pesante bombardamento ho perso tre uomini, tre amici, in soli cinque minuti. Tre vite spezzate. Ho dovuto combattere ed eliminare 26 vietcong di cui otto con combattimento corpo a corpo. E’ stato allucinante!”.

Che tipo di guerra è stata e perché? “Una guerra dura, senza esclusione di colpi, fatta dagli americani per motivi politici che pensavano terminasse nell’arco di soli due anni ma che è durata un decennio. Una guerra senza motivo”.

Mantieni ancora qualche contatto con ex compagni? “No, ho perso tutti i contatti e non voglio sapere più nulla di quel passato. Ho passato notti insonni, incubi. Ogni giorno ripenso a qualcosa del Vietnam, è una ferita che mi porto dentro”.

Dov’era la tua destinazione in Indocina e cos’è cambiato da allora. “Ho trascorso molto del mio tempo tra le montagne a trenta chilometri dal confine del Vietnam del Nord. Non c’era tregua, mai. Adesso cos’è cambiato? Che mangio tre volte al giorno, non dormo più nel fango e finalmente posso prendere la vita giorno per giorno, magari non troppo sul serio. Laggiù esistevano tre regole immorali che acquisivi nel tempo: una paura terribile sempre, faceva parte di te ormai, era attaccata addosso come una seconda pelle, poi il disinteresse totale per ogni cosa che non riguardasse la sopravvivenza e per ultima una rabbia profonda che era l’unico motore che ti aiutava a sopravvivere”.

Quando termina l’esperienza in Vietnam per Bob.“Sinceramente nella mia psiche di uomo, il Vietnam non ha mai smesso di esistere. È una condizione con la quale devi convivere. Sono stato molto aiutato dal supporto di uno psicologo. Nei miei incubi notturni rivedo i miei compagni che ho perso, gli amici, il sangue delle giovani vite. Molti ragazzi sono riuscito a proteggerli, a salvarli, altri no. Per quanto riguarda la mia esperienza fisica, nel 1972 sono rientrato per circa un mese negli Stati Uniti e poi la mia destinazione è stata il Nicaragua, El Salvador, l’Honduras ma quelle erano un altro tipo di conflitto”.

Cosa rimane dentro il soldato Ordway di tutta questa esperienza. “Rimane l’immagine di una persona come il Generale Westmoreland, venuto un giorno al campo in visita, il quale è convinto che l’unico posto che esiste al mondo siano gli Stati Uniti d’America. Gonfiato di parole e parole, lontane dalla realtà. Resta il dolore di aver portato ai famigliari dei miei uomini la triste notizia della loro scomparsa. Più di centonovanta e sono andato casa per casa; questo il compito più difficile della mia guerra. Vedere le madri disperarsi, padri piangere a dirotto e poter dire loro solamente –  mi dispiace –. Mi hanno decorato ventisei volte per niente“. 

Adesso Robert Lee è in Italia, come impiega il suo tempo?“Sono in pensione, trascorro il mio tempo leggendo la Sacra Bibbia dove riesco a trovare la pace. Sono stato ferito sei volte e Dio mi è sempre tenuto la mano. I giovani di oggi dovrebbero stare molto più vicini a Dio, stare vicini alla famiglia e lontani da alcool e droghe, dalle cattive compagnie. Parlare con i famigliari oppure uno psicologo, tutto questo è importantissimo. Ritrovare i veri valori”.

Ho trovato in Robert una persona meravigliosa, dal cuore grande e dalla profonda filosofia. Un uomo che nonostante il suo trascorso di Berretto Verde operativo, ha saputo trovare l’equilibrio, la pace interiore. I suoi occhi, quando riaffiorano ricordi inenarrabili, assumono una velatura diversa, quasi con tonalità di rabbia. Bob è un uomo schivo, adora la solitudine, la concentrazione, la lettura, la riflessione. E’ un uomo carismatico che ha molto da insegnare e molto da dare a mio avviso. Ritengo che sia una preziosa testimonianza di un passato che ci ricordiamo solo da qualche servizio giornalistico in bianco-nero trasmesso dalla Rai. Robert non ha la radio, il computer, la televisione, la sua scelta di vita è lodevole e non facile. E’ aggiornatissimo su tutto ma dice che in televisione non c’è nulla di interessante; difficile dargli torto. Sono felice di avere trovato un prezioso nuovo amico come lui. Desidero pubblicamente ringraziarlo per avermi accolto nella sua dimora e per avermi dedicato parte del suo tempo.